Credimi, è tutto falso

Sudori e fumi. L’ultima delle piste, una bolgia nebbiosa e maleodorante, ci accoglie. Tim mi conduce per mano, sfioriamo ballerini sfigurati da edemi mostruosi. Camminiamo attraverso i raggi di luci stroboscopiche fioche, altri frequentatori che si muovono come animali rabbiosi. Parvenze di essere umani. Tutto qui è deformato, alterato, doppio. Come la realtà che ho di fronte: vera e percepibile, falsa e inafferrabile. Come l’uomo che Tim mi indica: sudato e febbricitante, loquace e seducente. Sostiene che è questo posto è un inganno.

La catena del falso

– Non che abbia qualcosa contro gli inganni, io. Forse quell’ipocrita di Harris. Lo hai conosciuto? Il paladino dell’etica, certo, come no. Qui mi chiamano Sinone il Falsario. Solo perché ho confessato di essere un mentitore di professione. Tu, invece, perché sei qui? Non lo hai ancora capito. Devi aver fatto incazzare qualcuno, se sei arrivato così in basso.

È un viaggio di conoscenza, il mio. Tim è la mia guida.

– Tim! Tim, perdonami ma questo stato febbricitante permanente cui sono condannato offusca le mie capacità cognitive, non ti avevo riconosciuto. Gli hai spiegato tu allora come funziona al nostro amico con lo zuccotto? Lo Schema Ponzi e tutto il resto.

Ponzi? Tom Ponzi?

– Tom chi? Ma no: Charles. Charles Ponzi. Ho capito. Ti racconto io. Fidati, è una bella storia.

Tim vorrebbe chiuderla qui, ma stavolta sono io che voglio restare.

– Penso fosse delle tue parti, se sei italiano come il tuo accento tradisce: sei mai stato a Ravenna? Da quelle parti, nel 1882, nasce Carlo Ponzi. A ventuno anni arriva negli Stati Uniti, in tasca due dollari e cinquanta centesimi. Il resto di quello con cui era partito? Perso alle scommesse durante il viaggio in nave. Dopo quattro anni, lo troviamo a Montreal, Canada, dove diventa (non chiedermi come) consulente del Banco Zarossi, una banca specializzata nella gestione dei risparmi degli immigrati italiani. Il Banco – lo immagini già – fallisce e il fondatore scappa in Messico. Ponzi falsifica un libretto degli assegni trovato negli archivi della banca, si dedica alla bella vita e finisce per tre anni in una prigione del Québec. Esce, torna negli Sati Uniti, entra in un giro di immigrazione clandestina e ripete l’esperienza carceraria, questa volta per due anni ad Atlanta, dove inganna il tempo traducendo dall’italiano all’inglese, a beneficio di una guardia carceraria, le lettere del Lupo, uno dei gangster mafiosi più pericolosi dell’epoca.

Vuoi forse stabilire un nesso tra traduttori e falsari?

– Aspetta, amico, abbi pazienza. Che me ne frega dei traduttori. Arrivo al punto. Ponzi, oramai Charles Ponzi, esce dal carcere di Atlanta, si trasferisce a Boston, si sposa, scrive una “Guida del commerciante”, la spedisce agli interessati, anche al di fuori degli Stati Uniti, e ha un’illuminazione: può fare soldi giocando sui profitti che derivano dalle differenze nel cambio internazionale tra i buoni da scambiare con il francobollo della spedizione. Fonda la Securities Exchange Company e con il suo sistema promette ai soci profitti del quattrocento percento. Lo seguono in quarantamila. Diventa ricco. Molto ricco

Continuo a non capire perché mi racconti di questo Ponzi.

– Ti spiego lo Schema. Pensa a quattro fasi. La prima promette all’investitore un rendimento dell’investimento superiore alla media del mercato. La seconda fase mantiene la promessa restituendo all’investitore parte della somma investita: la prova che il sistema funziona. La terza, quella cruciale, è il word of mouth: si sparge la voce che il sistema è redditizio. Altri investitori sono attirati e i loro versamenti pagano gli interessi dei primi investitori. La quarta è il punto di non ritorno: quando le richieste di rimborso superano i nuovi versamenti, la bolla è servita.

Ingredienti per fake news

E allora?

– Come allora? Non capisci? Con i media online funziona come con lo Schema Ponzi. Intanto mettiti nella testa che là fuori, su internet, sono tutti blog, oramai. Siti di giornali, account Twitter, pagine Facebook, YouTube. Ogni giorno i siti e i profili social combattono per ottenere attenzione e riempire uno spazio infinito di informazione: il sito che riesce a coprire più spazio vince. In altre parole: i media hanno fame di storie. E questo da sempre. Nel 2003 è bastato un tono di voce convincente, una fiala piena di polverina bianca, scoop preparati a tavolino, un’impeccabile rappresentazione teatrale all’ONU, pronta per diventare virale online sui siti di informazione e offline nelle menti dei cittadini, et voilà, andiamo a distruggere le armi chimiche di Saddam. Facebook esisteva? Le armi chimiche di Saddam esistevano? Seguimi, fra! Ti spiego. Di nuovo. La prima fase è creare una storia, qualsiasi storia che prometta engagement, non importa dove: anzi, se su un piccolo giornale, un piccolo blog, un profilo Twitter sconosciuto, meglio. La seconda, farla arrivare a una delle grandi testate per il rilancio, magari aiutati da una schiera di bot che fanno diventare il contenuto virale: la prova che la storia funziona. La terza è l’homepage: la storia è legittimata, è nel mainstream. È diventata vera e tutti vogliono conoscerla. La quarta è il punto di non ritorno: non importa più se la storia da cui tutto è partito fosse vera o falsa, la realtà è stata cambiata, oramai. Ecco la catena. Io l’ho inanellata per anni, con queste mani, una tastiera e i social. Metti in moto il genio che c’è in te, che cos’hai da perdere?

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La catena di un truffatore. Come il tuo eroe, quel Ponzi.

­– Truffatore, già. Così sembrerebbe, amico mio, tra questi fumi e questa febbre che mi debilita. Ma se parliamo di raggiri, di imbrogli – e di etica: ero un truffatore quando dal nulla ho fatto guadagnare diecimila dollari alla fondazione benefica di un mio amico? Oppure ero un benefattore, io stesso? Un video su YouTube, un post su un piccolo blog locale tenuto d’occhio dall’Huffington Post, una sua email da un account creato ad hoc alla televisione nazionale con il link alla storia ripresa dall’Huffington, il servizio TV nell’edizione nazionale e il gioco era fatto: il crowdfunding era partito a vele spiegate. Io non falsifico. Io manipolo, impasto: sono il farmacista che miscela le erbe medicinali delle storie. Scrivo, romanzo, produco realtà: sono un autore. Tu che lavoro fai?

Sto per rispondergli quando Tim mi afferra. Mi porta via dalla realtà di questa bolgia tanto falsa da essere verosimile. Ricordo quello che Tim mi disse all’inizio di questo viaggio: i collegamenti. La rete. Ogni pista è collegata a un’altra, ogni nodo a un altro nodo. Ma i nodi non formano una ragnatela, come sostiene lui. È un cerchio. Un solo grande nodo che tutto ingabbia. E forse ci stiamo arrivando.