A cosa stai pensando: perso, sto pensando che mi sono perso in una nuvola nera. Forse dovrei pulire lo schermo, o cambiare la pellicola, buttarla. Cambiare telefono. I miei occhi sono pesanti e stanchi, come le braccia quando trasportano su per le rampe di scale un paio di casse d’acqua. Valuta il servizio: tre stelle. La schiena del rider (quando è entrato nel mio appartamento?) è piegata in una postura sottopagata e in un sorriso sdentato. Non ho più fame. Ricerca: salario rider.
Distinguo un Doodle di Google, celebra l’inizio del viaggio di un poeta nei regni ultraterreni. Perché celebrare una cosa simile? Cosa desideri veramente: raccontare la mia storia. “Io non so ben ridir com’i’ v’intrai, tant’era pien di sonno a quel punto che la verace via abbandonai”. L’ho scritto io? L’ho letto in una didascalia delle foto delle vacanze di Beatrice? O era un commento su TripAdvisor? Dormirei davvero, se non fosse per questa aria densa che mi circonda e punge le mie narici con la sua essenza di zolfo. Adesso è un aroma di incenso che mi solletica la gola. Tossisco. Esco. Di quegli odori nessuna traccia, intorno a me solo palazzi, scheletrici, anonimi parallelepipedi neri che circondano la piazza nella quale mi trovo ora (come sono arrivato qui?).

Un dedalo buio illuminato da un solo, sottile fascio di luce, inghiottito da un canyon dell’agglomerato di cemento. Dove vuoi andare: nelle vicinanze. O verso una via di uscita. Quella serie in cui un ragazzino entra in una grotta e ne esce trentatré anni prima, non è inverosimile. All’incrocio cerco di scegliere a chi chiedere informazioni tra la folla che gremisce le strade. Scusi, è vero che si è dimesso il governo Goria? Davanti a me ci sono solo corpi vuoti, stilizzati, i volti irrealmente perfetti. Vagano anonimi e claudicanti senza accorgersi della mia presenza finché uno di loro non mi addita con il bastone.

Noto che non è un bastone, è uno stick all’estremità del quale è agganciato uno smartphone. In pochi secondi sono accerchiato da una folla di storpi tecnologicamente dotati, trovo un varco, accelero il mio passo uniformandolo al ritmo del mio cuore, chiudo gli occhi. Rilevata una forte agitazione. Inspira. Trattieni. Espira. Ripeti. Cammina.
Segui il tuo programma di allenamento settimanale (quale allenamento?). La smartband impiantata nel mio polso. Rilevato un crescente malessere. Rivolgiti a uno specialista. Attiva la geolocalizzazione del dispositivo per trovare quello più vicino a te. Di un chirurgo per liberarmi di te, avrei bisogno. Sei tu il malessere. Potrei fare da solo. Potrei rompere questa bottiglia di birra (perché vedi questo annuncio: perché hai cercato “birra”), prendere un coccio, smussarne le estremità con la fiamma del mio accendino e improvvisarmi chirurgo, e FTW, fanculo alla mappa tridimensionale della mia massa grassa e all’analisi delle mie emozioni.
Adesso sono al sicuro, il fascio di luce è lontano. Posso riaprire gli occhi. Ora sono le orecchie, il problema. Un cinguettio insistente e irritante. No, è un garrito, sempre più intenso. Un gabbiano mi sta attaccando. Doveva succedere, prima o poi, in questa città immonda. Solo quando mi tocco la ferita alla testa, mi rendo conto, come in un’appercezione differita, che il gabbiano non era bianco. Era blu.
Alzo gli occhi al cielo. Migliaia di uccelli, tutti blu, appollaiati lungo il mio cammino (il cammino della mia vita?). Nessuna via di fuga. Il rumore prodotto dai cinguettii, dai garriti è accecante, mi costringe a chiudere di nuovo gli occhi. Scappo al buio, le mani premute sui timpani durante ogni passo della mia corsa. Vuoi disattivare le notifiche? (Non è tardi?). Inciampo. Resto a terra, in attesa di essere smembrato come un cassonetto della spazzatura.
– Ecco il mondo che abbiamo costruito.
Una figura, poco più di un’ombra, mi sovrasta, mi porge la mano. Mi fido?
– Bentornato negli inferi.
No, grazie, ci sono già passato.
– Anche io. Anzi, temo di averlo inventato io, questo inferno.
Ma tu non sei Mark Zuckerberg.
– Tutti credono che sia stato lui, tu non fai eccezione, nonostante quello che si dice della tua somma cultura.
Ma certo. Tim. Berners-Lee. Tu sei Tim Berners-Lee. Il sapere umano raccolto, ipercollegato, questo sito porta a un altro sito, questo fatto rimanda a un altro fatto, un tasto, una cliccata di mouse, una parola di identificazione, mondo senza fine, amen. Già, amen, dice Don. La messa è finita, a differenza del tuo mondo perduto. Tentativo ammirevole, il nuovo modo di comunicare, la condivisione universale, la rete aperta, i contenuti accessibili. Il pubblico dominio. I monopoli privati. Non è andata così bene, questa tua applicazione, questa tua ragnatela ampia quanto il mondo. Un cerchio, piuttosto.

– Segui i collegamenti. Sei in grado di seguire ancora i collegamenti? Mettere insieme il prima e il dopo, separare la causa e l’effetto, distinguere il rosso dal nero, senza lasciare che sia un algoritmo a farlo al tuo posto? Se ne sei ancora capace, seguimi.
Mi fido. Click. La voce di un predicatore su un organo di chiesa.
Dearly beloved, we’re gathered here today to celebrate this thing called digital life.
Tim ci collega a un ascensore. Dice che incontreremo un sacco di amici. Facce sorridenti. Pollici all’insù. Bicipiti gonfiati. Cuori pulsanti. Mi fido? Click. Meno due. Dlin dlon. Le porte dell’ascensore che ci ha portato giù si aprono. L’inferno, sul serio (quando sono stato qui?).
